FERRARA E DERAIN
Alla scoperta delle tre anime di Ferrara. Con l’aiuto di tre fantasmi assunti a guide turistiche, un artista francese troppo poco conosciuto e qualche piadina.
L’enfasi predicatoria del Savonarola mima quasi un abbraccio di Benvenuti a Ferrara!. Ferrarese di nascita, Fra’ Girolamo scese a “far danni” a Firenze: voleva farne una Nuova Gerusalemme. Mal gliene incolse! Una lapide in piazza della Signoria segna ancor oggi il punto in cui fu bruciato al rogo.
Arrivo a Ferrara con tre nomi in mente: Ariosto, De Chirico, Bassani.
Tre ideali ciceroni, tre punti di vista diversi e dialoganti che guideranno la mia visita.
Mi affido a loro, alla suggestione delle loro creazioni, per andare alla scoperta delle tre anime della città.
Il primo a prendere la parola è l’Ariosto, e non sarà facile togliergliela, abituato com’è a declamare la pazzia d’Orlando alla corte degli Este, ad avere l’intera scena a sua esclusiva disposizione.
Toccherà a lui svelarmi la Ferrara “cortese” e Rinascimentale, in cui ancora gode di ottima salute il ricordo del Medioevo cavalleresco cantato nel suo più celebre poema, la cui prima stesura risale al 1516, e che comincia laddove si interrompe la narrazione di un altro capolavoro come l’Orlando Innamorato del Boiardo (altro celebre ferrarese d’adozione).
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto… E’ con questa colonna sonora ideale che mi inoltro tra i mattoni rossastri della cerchia più antica di Ferrara: qui tutto è raccolto, silenzioso, immobile. Un susseguirsi di piccoli chiostri (l’intimità di quello di Casa Romei, o l’altro, in miniatura, dell’ex chiesa di San Romano) in cui il tempo sembra davvero – più che in ogni altra città – aver rinunciato a passare.
IL CASTELLO E LA FERRARA DI BASSANI
L’unica costruzione che si permette il lusso della monumentalità – oltre alla Cattedrale, con la sua bella facciata che intreccia l’austerità del romanico alla leggerezza del gotico – è il Castello Estense: piantato lì, nel mezzo ad una città in scala ridotta, spicca ancor di più con la sua possente mole ancora difesa da fossato e ponte levatoio, che non ha perso il potere di incutere una certa soggezione.
Di nuovo per strada, è il fantasma di Bassani che mi fa notare le lapidi sul muretto che delimita il fossato verso il Corso Martiri della Libertà (già Corso Roma). Contro questi mattoni, mi dice, 11 ferraresi vennero fucilati in “Una notte del ’43” (come recita il titolo di un suo racconto) ovattata di neve e di insensatezza: fu la prima esecuzione sommaria della guerra civile italiana – quella tra fascisti ed antifascisti -.
Bassani mi tira giù da quella nuvoletta soffice e trasognata che mi scarrozza qua e là sulla scia delle parole dell’Ariosto, mentre mi immagino vestita del più sontuoso abito rinascimentale (con tanto di strascico, s’intende!); mi chiede di ricordare, tra un affresco e l’altro, la sua Ferrara di carne e sangue, buttata giù dal letto di soprassalto dal baccano che fa la Storia, quando passa: la Ferrara di piccole esistenze senza più nome, languenti in una città che fu prigione per molti, con le sue sbarre d’inerzia; la Ferrara della comunità israelitica, della borghesia impaurita e corrotta, delle strette stradine del ghetto (tra via Vignatagliata, Vittoria e Mazzini), dell’Orto degli ebrei.
Mi lascia tra le mani il suo Romanzo di Ferrara, un mosaico di storie, una bussola per orientarmi in quest’anima scomoda e quietamente disperata della città; è un romanzo che ne contiene altri (tra cui il celebre Giardino dei Finzi-Contini), comprese le Cinque storie ferraresi, che recano questa epigrafe di Pascal, come un invito ad un empatico immergersi nelle fibre profonde di un luogo, dove anche il più insignificante particolare ha un senso che chiede di svelarsi, di essere ascoltato: “Una città, una campagna, viste da lontano sono solo una città e una campagna; ma, via via che ci s’avvicini, diventano case, alberi, tegole, foglie, erba, formiche, zampe di formiche; all’infinito.“
IL MUSEO DELLA CATTEDRALE E LA FERRARA DI DE CHIRICO
E’ domenica. Piazza Trento e Trieste – a lato della Cattedrale – è affollatissima: è giorno di mercato.
La piazza e le viuzze intorno sono come avvolte da un’immensa e accogliente nube di zucchero caldo; dev’esserci un banco di dolciumi poco distante.
Intanto, Ludovico (ormai ci diamo del tu; chiacchiera talmente tanto che è già come se lo conoscessi da anni) sembra perplesso: “che cosa sarà mai quella costruzione con grandi pareti di vetro, proprio davanti alla quattrocentesca Loggia dei Merciai?”, si chiede. “Che sia un moderno tempio della società occidentale? Dev’esserlo per forza, se gli è stato dedicato uno spazio tale, proprio al centro della città, fianco a fianco con gli edifici più prestigiosi!”. “Quasi”, gli rispondo. Caro Ludovico, ti presento il Mac Donald’s; siamo uomini del ventunesimo secolo, e, con tutti i fardelli che abbiamo da portare, figurati se ci tenevamo anche quel peso morto del Buon Gusto! Perciò, non ragioniam di lor, ma guarda e passa!
Col mio sacchetto di mandorle caramellate tra le mani (l’ho scovato, il banco dei dolci!) mi sposto davanti alla ex chiesa di San Romano, col suo suggestivo chiostro in miniatura, oggi sede del Museo della Cattedrale. Non ho granché voglia di ammirare la solita carrellata di ostensori e paramenti varii, a dir la verità; ma la mia guida non sente ragioni, per mia fortuna. Infatti, proprio questo piccolo museo, che si articola su due soli spazi, si è rivelato uno dei luoghi più seducenti della città. Non trascuratelo. Oltre ad una raccolta di codici miniati di incredibile fattura (Ferrara conta grandi nomi nel campo della miniatura), una volta raggiunta quella che era la navata unica della chiesa ci si trova davanti a due enormi ante d’organo, dipinte da uno dei tre esponenti della cosiddetta Officina ferrarese: Cosmè Tura (gli altri due, per chi fosse curioso, sono Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti).
A questa triade, attiva a Ferrara a partire dalla metà del Quattrocento (e a cui Palazzo dei Diamanti dedicherà una mostra a partire da settembre 2007), si deve essenzialmente l’incredibile originalità del Rinascimento ferrarese.
Basta osservare questo enorme San Giorgio che uccide il drago: è una pittura sopra le righe, eccessiva, tormentata, disarmonica, quasi espressionistica; molto più “libera” e densa di pathos di qualsiasi coeva espressione italiana (si pensi ad un Piero della Francesca) nel suo guardare al di là delle Alpi piuttosto che agli artisti nostrani.
Due particolari, tra gli altri: il muso del cavallo, deformato dallo sforzo e dalla paura; o, nell’Annunciazione lì accanto, la spontaneità irriverente di uno scoiattolo che gioca con un filo rosso rubato al cucito di Maria.
In cerca della più spettacolare espressione dell’Officina, mi dirigo verso una delle maggiori “delizie” estensi (e stavolta giuro che non parlo di cibo!): palazzo Schifanoia.
Con il termine “delizie” si intendevano quei palazzi di rappresentanza e di svago in cui “schivar la noia”, appunto.
(Però, già che siamo in argomento…non lontano dalla piazza, in via Mazzini, cercate il Kiki Bar se vi vien voglia di una succulenta piadina cotta sul momento e ripiena all’inverosimile con tre ingredienti a scelta. Un’avvertenza: se ve ne propongono una ripiena di “zia ferrarese”, non allarmatevi, nessuna simpatica vecchietta locale è stata sacrificata per l’occasione; è un buon salame, provatelo).
Nonostante la folla domenicale, basta allontanarsi di due passi dalla piazza principale per ripiombare in un silenzio irreale, in stradine deserte in cui i propri passi godono ancora del raro privilegio di farsi sentire.
Lungo la strada, percorrendo la medievale Via delle Volte, con i suoi archi bassi e sghembi e le sue travi di legno, la parola passa per un pò ad un’altra delle mie guide.
De Chirico, col suo fare tronfio e un pò antipatico, zittisce gli altri due esibendo uno dei suoi più famosi quadri: Le Muse Inquietanti; sullo sfondo, ecco la mole rossa del Castello Estense. E’ proprio tra queste vie, infatti, che nel 1916 nacque ufficialmente (nel senso che venne teorizzata) la Metafisica. E’ attraverso lo sguardo del suo più importante esponente che Ferrara mi svela ad ogni angolo questo suo “lato oscuro”, fatto di spazi deserti, dai contorni indeboliti dalla nebbia che il fossato del Castello riversa nelle piazze come fosse un immenso pentolone di streghe in cui sobbolla qualche misteriosa pozione; atmosfere sospese, pervase da un’inquietudine sottile, illuminate da una livida luce che trasforma ogni ombra in enigma impenetrabile.
PALAZZO SCHIFANOIA
E il mistero non si ferma certo sulla soglia di Palazzo Schifanoia.
Ne invade una sala in particolare, quella in cui si trova affrescato il Ciclo dei Mesi: uno dei cicli pagani più importanti del Rinascimento italiano, dipinto dall’Officina che già conosciamo, nel 1469-70, per volere di Borso d’Este (che, a giudicare dalle innumerevoli pitture e sculture che lo ritraggono in città, con quel suo onnipresente sorrisetto sornione, doveva saperla ben lunga!).
Dei dodici mesi che ricoprivano l’intero salone, solo sette ne rimangono (ed è tanto, se si considera che il Palazzo fu adibito a Manifattura Tabacchi nel Settecento, e gli affreschi, ricoperti di intonaco, rividero la luce solo a partire dal 1820): uno spettacolare calendario che si snoda per fasce orizzontali (divise verticalmene da lesene dipinte, che scandiscono, in verticale, gli scomparti dei vari mesi) gremito di oscuri simboli astrologici che da più di un secolo costituiscono uno stimolante rompicapo per generazioni di studiosi.
PALAZZO DEI DIAMANTI E LA MOSTRA SU DERAIN
La mattina successiva è tempo di onorare il pretesto che mi ha portata a Ferrara. Rotta verso Palazzo dei Diamanti, quindi, per la mostra dedicata ad André Derain (visitabile fino al 7 gennaio 2007).
Il Palazzo – col suo caratteristico rivestimento a bugne scolpite “a diamante” fatte apposta per dilettare la luce – si trova all’interno dell’ “addizione Erculea”: un’espansione urbanistica ispirata alla concezione rinascimentale del tessuto cittadino, con ampie vie su cui si affacciano dimore signorili e ameni spazi verdi, voluta da Ercole I d’Este nel 1492. Ercole dà anche il nome alla lunga, bellissima via in ciottoli di fiume – 1,3 km ca. – che la taglia in due, drittissima, dal Castello alle Mura (e sappiate che queste ultime offrono una piacevole passeggiata). Fu questa geniale costruzione urbanistica che valse a Ferrara il titolo di “prima città moderna d’Europa” (nelle parole dello storico Burckhardt): e scusatemi se è poco.
Visitare la mostra dedicata a Derain è come visitarne almeno tre in un volta sola. Il Nostro ha infatti attraversato alcuni dei capitoli più importanti della storia dell’arte moderna, e nell’ambito di ognuno di essi è riuscito a dar vita a dei capolavori: aspetto non comune, considerato che nella maggior parte dei casi gli artisti hanno il loro “periodo d’oro” racchiuso nei limiti di un unico stile.
La sua opera è un riassunto di mezzo secolo d’arte, che rende conto della spinta avanguardistico-rivoluzionaria tanto quanto del “ritorno all’ordine” che abbandona la “novità ad ogni costo” per rifarsi alla tradizione.
Iniziamo a seguirlo a partire dal 1905, data in cui alcuni dei suoi lavori furono esposti al Salon d’Automne di Parigi, fianco a fianco a tele di Matisse, Vlaminck, Marquet; i critici, per lo più indignati, parlarono con palese tono dispregiativo di cage aux fauves (‘gabbia di belve’): era nata la prima avanguardia storica novecentesca: il fauvisme.
Già, ma cos’avevano di cui indignarsi? Basta posare lo sguardo su due delle tele in mostra come I dintorni di Collioure o Donna in camicia per rendersene immediatamente conto. Per prima cosa, il colore, elemento compositivo portante delle opere fauve: colori saturi, brillanti, sfacciati, stridenti e assolutamente antinaturalistici. I tubetti di colore si trasformano in “cartucce di dinamite“, vivono di vita propria, esplodono, liberano emozioni pure. La carica espressiva non deriva più dal soggetto rappresentato: è il colore che parla, adesso. Che urla. Aggiungiamo una colma cucchiaiata di stilizzazione e deformazione della realtà, e l’avanguardia è servita. Il patto di fedeltà incondizionata al reale “così com’è” è definitivamente archiviato: la verosimiglianza cede il passo ad una sintesi assoluta delle forme, che non vuol sentir parlare di profondità prospettica o chiaroscuro, né tantomeno di resa oggettiva del reale: conta solo la vigorìa comunicativa. La pennellata è nervosa, veloce, talvolta approssimativa nel suo correr dietro ad una sensazione improvvisa.
Precursore anche nel fare marcia indietro, Derain, già a partire dal 1912, si dedicò interamente ad un’eclettica e per certi aspetti austera rivisitazione della tradizione figurativa occidentale (tendenza che investirà l’Europa intera – che, sfinita dalla guerra, ne ha abbastanza di trasgressione – a partire dagli anni Venti, e che va sotto il nome di “ritorno all’ordine”). Uno sguardo all’indietro che dilata l’orizzonte, trascorrendo dalle sofferte figure del gotico alle pitture murali romane, dalla luce tagliente delle nature morte fiamminghe, quasi dei trompe-l’oeil, all’armonica compostezza dei Maestri del Quattrocento italiano, dalle volute pastose del barocco alla ingenua semplicità medievale.
Una mostra da visitare, quindi, non solo per l’emozionante esplosione di colori della prima sezione dedicata al fauvismo, ma anche per questo ripercorrere l’intera storia dell’arte attraverso l’abilità e la sensibilità fuori dal comune di un unico artista.
Usciti dal Palazzo dei Diamanti, dopo una sosta nell’ottocentesca ombra verde di Parco Massari, dirigetevi verso piazza Ariostea; raggiuntala, imboccate a sinistra la piccola via delle Erbe (e, da qui, la prima stradina sempre sulla sinistra) o, più in giù, via delle Vigne.
Fu Ercole I d’Este a destinare, ai tempi dell’addizione, uno spazio alla campagna entro le mura cittadine: spazio che ancora resiste. Quattro ettari assolutamente inaspettati, con alberi di fichi affacciati sul sentiero, rifugio per gazze e ghiandaie, piccole coltivazioni biologiche, e, al di là dei campi, l’immenso abbraccio dei portici della Certosa (oggi Cimitero Monumentale).
Una “delizia”, anche questa: l’ennesima sorpresa tra le tante che questa città dall’ambigua natura distribuisce, a piene mani, a chi abbia sguardo paziente e disposto allo stupore.
Serena Effe © 10/2006
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La facciata della Cattedrale – ancor più affascinante di notte – vista dalla piazza del Municipio.